lunedì 18 giugno 2007

Brancaccio 1, sceneggiatura: Di Gregorio

Tutorial n°20

Brancaccio è un bel fumetto scritto da Giovanni Di Gregorio e disegnato da Claudio Stassi, edito da BeccoGiallo, presentato alla recente LuccaComics e trasformatosi in un piccolo successo editoriale, merito della sensibilità e della sincerità con cui è stato realizzato dagli autori.
Il primo Tutorial su questo fumetto è dunque dedicato alla sceneggiatura e al procedimento creativo utilizzato da Giovanni, che ci parla di come è andata.


Autunno 2005.

Gli editori di Beccogiallo sono veneti e si occupano di cronaca a fumetti. Nella programmazione del prossimo anno vogliono un libro sulla mafia. Chi meglio può realizzarlo, pensano, se non un autore siciliano? Una riflessione intelligente e per niente scontata.




Contattano Claudio. Io e lui volevamo fare insieme qualcosa da tempo, a Claudio questa sembra una bella occasione e così mi propone di occuparmi di soggetto e sceneggiatura. I Becchigialli ci propongono una rosa di 2-3 titoli: Falcone, Borsellino, Padre Puglisi, grossi nomi. Nomi che mettono soggezione, nomi difficili da trattare. Il rischio di cadere nel già visto o nella retorica è lì in agguato.

Padre Puglisi ha lavorato a Brancaccio, dove Claudio vive da anni. Ci sembra una felice coincidenza e ci decidiamo per il coraggioso parroco. Inizio a lavorarci su, poi mi accorgo che non lo conosco a sufficienza, e documentarmi su film e biografie varie significherebbe ripetersi. Fare una piatta trasposizione a fumetti di altre opere.

Mi consulto con Claudio e con i Becchigialli: e se parlassimo del quartiere?

La mafia vista dal basso, vissuta quotidianamente. Quella che assorbiamo ogni giorno, quella di cui nessuno parla perchè non ci sono morti ammazzati nè blitz della polizia. La mafia più pericolosa, quella che ci corrode dall'interno. Va bene, si fidano e mi danno carta bianca.

Perfetto, adesso il problema è: cosa voglio raccontare? D'accordo, il quartiere, ma da che punto di vista? Faccio un documentario sull'acqua che non arriva, le raccomandazioni, le connivenze con la politica? La storia di un killer che si è pentito?




Ci penso su: voglio raccontare delle conseguenze che hanno i piccoli gesti quotidiani, a prima vista innocui, in un quartiere di Palermo. Che invece non sono innocui per niente. Che sono impregnati di illegalità, di violenza, di rassegnato fatalismo. E che hanno conseguenze tragiche, sempre. E poi voglio raccontare della nostra cecità, del fatto che ormai nemmeno ce ne accorgiamo più, di essere le vittime di noi stessi.

Primo punto fermo: i protagonisti devono essere persone ordinarie, il più ordinario possibile, niente poliziotti coraggiosi o sicari sanguinari. Nessuno di loro deve avere contatti diretti con la mafia. Diretti. Perchè chiunque abiti a Brancaccio deve fare i conti con la mafia, nolente o volente, consapevole o no. La scelta è facile: un bambino, un venditore di panelle e una casalinga: cosa di meglio per rappresentare un quartiere popolare di Palermo?




Secondo punto fermo: niente spettacolarizzazione. Non ci dovranno essere scene forti. O meglio, non bisognerà calcare sulle scene forti (che scene forti ci sono tutti i giorni, a Brancaccio). I cadaveri riversi sui marciapiedi e crivellati di colpi, le volanti che sgommano e i poliziotti in assetto di guerra lasciamole ai film di cassetta. Vogliamo raccontare la vita quotidiana, e gli omicidi non ne fanno parte. Tutto qui. Altrimenti si

rischia di scambiare la mafia con quella che è solo la sua manifestazione militare. Che non è nemmeno il suo aspetto più pericoloso.

E poi a livello narrativo voglio provare altre strade, mi sono stancato delle storie che hanno il loro climax in uno scontro armato. Anzi, mi sono proprio stancato dei climax. Nelle storie di Gipi, per me un grande punto di riferimento, non c'è un vero e proprio climax. E ciò non le rende affatto meno avvincenti, semmai più vere. Forse perchè la nostra vita non procede di climax in climax, chissà.

Vabbè, però io non sono Gipi, inutile fare finta del contrario. Non reggo nemmeno due pagine se non sono sostenute da una struttura forte. Allora faccio un compromesso: ancorerò tutta la storia a un finale forte. Per il resto, cercherò di essere il più lieve possibile. E di evitare la retorica. Questo è difficile, io scivolo spesso nella retorica, è un mio punto debole.

A maggior ragione con un tema che mi tocca molto da vicino. Uno dei metodi sarebbe stemperare il tutto con l'ironia, ma qui non andrebbe bene. Mi viene di nuovo in aiuto Gipi: nelle sue storie spesso l'attenzione del lettore viene spostata, distratta, proprio sul più bello. E io farò così: quando succede qualcosa di troppo forte chiudo lì il racconto, sul più bello.







Magari faccio più episodi. D'altronde il formato dei libri di Beccogiallo è libero, si possono fare storia composite, intercalare vignette a foto o a testi scritti, usare stili grafici diversi. Sì, ne approfitto per fare una storia a più episodi, vediamo come viene.

Altro problema, un macigno di problema: il linguaggio. A Brancaccio si parla spesso dialetto, o quel misto tra italiano e dialetto che è diventato comune in gran parte del nostro paese. Io non parlo dialetto, nè tanto meno so scriverlo. Pazienza, penso, mi facci aiutare. Il libro però è destinato a essere distribuito in tutta Italia. Si capirà ? Metto delle note a piè di pagina, massacrando la leggibilità della storia? Uso un sistema misto? Ma io mica sono Camilleri, mica sono capace di inventarmi un linguaggio nuovo.

Anche qui un compromesso, a malincuore: uso l'italiano, conservando dove posso la struttura del siciliano.

C'è un altro fatto da tenere in conto, ancora più sottile. In Sicilia la comunicazione avviene spesso per codici non verbali. Sguardi, gesti, segni.

E' difficile spiegarlo a uno di fuori, ma due siciliani potrebbero parlare per ore di una cosa intendendone un'altra.

Eppure un siciliano lo capisce:

dalle espressioni, dal tono della voce, da impercettibili segnali. Tutta roba che in un fumetto è impossibile rendere, soprattutto se il lettore non sa decodificarli (ammesso che li sappia decodificare io, prima di tutto). Un siciliano non va ascoltato ma interpretato. Che fare per il libro? Decido di rendere il più scarno possibile i dialoghi, affidandomi alla bravura di Claudio per le espressioni.




E Padre Puglisi, che fine ha fatto Padre Puglisi in tutto questo? Non oso metterlo dentro la storia: come lo farei parlare? Cosa gli farei dire? Io non l'ho nemmeno conosciuto. Eppure come si fa a parlare di Brancaccio, di mafia a Brancaccio, senza incontrare Don Pino? E allora la nostra storia inizierà l'anno dopo della sua morte, esattamente un anno dopo.

Nei volumi Beccogiallo c'è la possibilità di aggiungere al fumetto degli approfondimenti scritti. Potremmo dare spazio a chi ha conosciuto Don Pino e ne può parlare in prima persona: il suo vice Gregorio Porcaro e Rosaria Cascio, che recentemente ha fondato un'associazione con il suo nome. Glielo chiediamo, accettano. Saranno loro e Rita Borsellino a parlare di Brancaccio e di cosa vuol dire testimoniare la legalità in un quartiere mafioso (Edoardo Zaffuto estenderà la sua riflessione al problema del pizzo). Mi piacerebbe però che Don Pino aleggiasse sulla storia, senza mai apparire. Penso a una soluzione. Spero di esserci riuscito.

Fatto, finito. A questo punto si tratta di imbastire il soggetto. Lo mando agli editori, piace. A gennaio firmiamo il contratto, si parte. Mi metto a lavorare sulla sceneggiatura.

Adesso tocca a Claudio.


Giovanni Di Gregorio

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